vergari

GEORGIA ON MY MIND


“Mazzola, goool!” Ecco una espressione che non mi sarei certo aspettato da un anziano contadino seduto davanti alla sua casa nel remoto villaggio di Shenaqo, nella regione del Tusheti, in Georgia, nel cuore del Caucaso.
E’ facile sentirsi dire, dopo che hanno capito che veniamo dall’Italia, il nome di Totti e Del Piero. Trenta anni fa in Cina ho ascoltato anche il nome di Rossi, ma nel 2014 sentire rievocare questa vecchia gloria del calcio italiano, che già i nostri giovani non conoscono più, mette quasi malinconia.

Il contadino poi si rimette, felice, a sedere e lascia suo nipote a cercare di vendere qualche oggetto di artigianato della zona a noi, curiosi camminatori, appena arrivati.
Ma perché siamo qui, in una delle regioni più remote del Grande Caucaso, a due passi dal confine con la Federazione Russa e dal Daghestan?
Tutto è iniziato per la mia solita curiosità di trovare percorsi nuovi da scoprire, lontani dai classici flussi turistici e la Georgia, e del resto tutta l’area caucasica, da qualche mese avevano acceso il mio interesse, e la voglia di vederla di persona era montata sempre più, fino a quando ho trovato l’occasione che speravo; una traversata della regione da Omalo a Shatili.
Erano anni che queste montagne solleticavano la mia fantasia, fin da quando in un numero del National Geographic avevo visto una delle incredibili torri antiche, in cui si difendevano gli abitanti della zona dalle incursioni dei predoni dei popoli vicini. Ma siccome l’articolo parlava anche della poca sicurezza della zona, di rapimenti di donne e di altre cose non certo invitanti per un viaggio, avevo archiviato l’area geografica.

Ma quelli erano altri tempi, poco dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica, dopo alcune guerre civili che avevano lacerato e dilaniato la nazione e che ancora purtroppo conserva le ferite, non rimarginate, dell’Abkhazia e dell’Ossezia Meridionale. Ma dopo aver letto alcuni libri sull’argomento, tra cui il fondamentale Pianeta Caucaso di Gorecki, la voglia era rimontata e si era fatta incontenibile. Non vedevo l’ora di bere da un corno di vacca un sorso di chacha, di entrare in una delle altissime chiese georgiane e di sentire un coro polifonico, di assaggiare un khachapuri acharuli, pieno di formaggio fuso e con un uovo sopra, di passeggiare tra quelle valli maestose, ai piedi di montagne di oltre 4000 metri di altezza, e di contemplare quei villaggi montani che mi sembravano usciti dalla fantasia di Tolkien e popolati dai malvagi orchetti. E così, dopo aver lasciato Sighnaghi, nel cuore del Kakheti, la regione vinicola della Georgia, ci troviamo sulla strada che inizia a incunearsi nelle prime propaggine del Grande Caucaso.

Le nuvole e la foschia del caldo che aleggia sulla pianura del fiume Alazani non ci permettono di vedere la cime dei monti, ma la vegetazione inizia a cambiare e i boschi iniziano a diventare più verdi e rigogliosi.
Poco dopo Alaverdi, una delle chiese più belle della regione e che per quasi un millennio è stata la chiesa più alta della Georgia, la strada diventa sterrata e sarà così per i successivi 50 chilometri, e sempre peggio fino all’Abano Pass e oltre, fino nel cuore del Tusheti, a Omalo, la nostra tappa di arrivo prima di affrontare il trekking che ci porterà fino a Shatili, nella regione del Khevsureti. La strada in certi punti è larga giusto quanto il nostro Mitsubishi Delica, guidato con nonchalance da un giovane guidatore in ciabatte infradito.

Chi è dalla parte esterna, cioè verso il bordo che guarda verso il lontano fiume che scorre molto più sotto nella valle, ha anche tempo di osservare le numerosi croci che punteggiano sopratutto le curve, segno di una manovra scorretta, un freno poco buono o di una sbronza un po’ troppo forte, mentre dall’altro lato si ha solo l’impressione di una strada che in caso di forti piogge possa collassare di punto in bianco. A voi la scelta! Terminato comunque il tratto più ripido la strada inizia a percorrere un aperto declivio a mezza costa tra grandi praterie, segno che siamo già oltre i 2000 metri. Tre signore accovacciate, ai margini di un bivio fanno pensare a un villaggio vicino, ma sembra quasi impossibile che su questi pendii, quasi verticali si possa costruire una casa.

Poco oltre, al margine stradale di una curva, un gabinetto, giusto un parallelepipedo in verticale di legno, come quelli che c’erano nelle nostre campagne molto tempo fa, è famoso perché è sicuramente l’unico dal cui buco puoi vedere le poiane volare sotto di te. Ma le sorprese non sono finite; poco più avanti una sorgente è la scusa per fermarsi a una tavolata costruita proprio sul bordo del precipizio, già occupata da un gruppo familiare che banchetta e festeggia il battesimo di un bambino. Il coinvolgimento è immediato e non possiamo non tracannare due bei sorsi di grappa, la famosa chacha, che ci viene offerta nel caratteristico corno di vacca.
“Gaumarjos!” I “salute!” non si contano più e con la grappa assaggiamo anche un po’ di pane, delle verdure che non riesco a identificare e un pezzo di agnello. La chacha ha l’effetto di anestetizzarti per un po’ e non farti sentire il freddo dei 2900 metri del Abano Pass, dove scendiamo un attimo per fare una foto alla grande croce, che sembra tagliare le nuvole di umidità che vengono dal sud. La strada inizia a scendere di nuovo, tra boschi di abeti e pini, e poi risale, sempre più su, fino alle prime case della nostra destinazione; Omalo.

Ma quando sembra di essere arrivati ecco che il fuoristrada procede e continua a salire, quasi voglia nascondersi tra le nuvole. Mi sembra di rivedere le gesta di Gorecki quando racconta di come qualche anno fa raggiunse il mitico villaggio di Xinaliq, nel Caucaso dell’Azerbajan, dove, a un certo punto, misero perfino le catene alle ruote per proseguire sulla traccia di sentiero tra i prati, tanto erano ripido.
Un ultima curva ed ecco apparire le prime case torri, allineate sulla collina più alta, davanti a noi e quasi inquietanti nella plumbea luce del tardo pomeriggio, e poi, ecco le case di Omalo Alto, quasi nascoste da un avvallamento del terreno. Sembra un villaggio di frontiera; case di legno e pietra, camini che fumano, cavalli e fuoristrada parcheggiati o in movimento, pietre e tavole di legname pronti per i restauri delle vecchie abitazioni, galline, vacche, piote, fango, insomma un po’ di marasma, ma di quello “creativo”, che fa dimenticare le fatiche del cammino per giungere sin quassù.

Alessandro Vergari