Cammino santiago 13

Altri frammenti del Cammino di Santiago



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Così il 25 Aprile siamo ripartiti presto da Roncisvalle, ai lumi dell’alba, senza aver fatto colazione visto che la Posada, dove avevamo cenato era chiusa e Casa Sabina era piena zeppa e con un solo addetto al bar che non reggeva l’urto dei clienti. Siamo passati così accanto al cartello stradale che indica Santiago a 790 km e che è uno sbaglio: se da Saint Jean ne mancano 775 non è possibile che da lì ce ne siano di più; l’italiano sarà anche un’opinione ma la matematica no.
Scesi fra alberi e muretti, ecco le prime case di Burguete/Auritz e un posto dove fare una colazione calda e rapida. Poi strade pulite, casette tenute con quell’aria “svizzera” dei luoghi di montagna che, siano dove siano, si assomigliano un po’ tutti. Qualche signore con il basco o simpatici murales ci ricordano che la Navarra è una regione basca e certi nomi quasi impronunziabili ce lo confermano.
Poi inizia quello che per me è il Cammino di Santiago come lo ricordavo dal 2008: ci sono campagne povere, popolate da mucche indolenti, qualche cavallo e rari trattori. Contadini riservati che appaiono di tanto in tanto senza far caso a te o agli altri pellegrini, presenza costante nelle loro vite da anni e anni, tutti i giorni e ormai non più novità. Gran parte del cammino è fra campagna e piante, stradelli sterrati o strade bianche fatte da carri e trattori.
Rispetto alla Castilla y Leon, qui i paesaggi sono diversi e per certi versi più simili a quelli della Galizia, dove il verde e il terreno ondulato delle colline hanno in comune con questi della Navarra la grande presenza di piandi prati e nell’aria quell’odore di stalla che mi riporta alla mia infanzia contadina.

Fresco e sole; necessità di spogliarsi di felpe o giubbotti solo in tarda mattinata, ma almeno il sole colora l’erba nuova e crea contrasti luminosi fra il cielo estremamente azzurro e la terra con le sue tonalità varie. Fra una discesa e una salita, un tratto attraverso un paesello dall’aria non certo spagnola (almeno per i nostri cliché), un’altra salita e una nuova discesa, i km scorrono e le amicizie si consolidano e il gruppo si scopre e fa conoscenza reciproca, oltre le presentazioni e i commenti del lungo viaggio in macchina o sulle salite del primo giorno.
Al termine della tappa, più breve e semplice (dopo la prima pirenaica, le altre lo sono tutte, fossero anche di 40 km!) eccoci a Zubiri, piccolo centro navarro, lungo la statale che scende dai monti verso la città che ci aspetta domani. Una stanza tutta per noi con alcuni letti normali e altri a castello, tutti comodi, con bagno e docce interne, una sorta di piccola suite tutta nostra e pratica.
Dopo una buona colazione nell’ostello di Zubiri che ci ha ospitato, terza partenza il 26 Aprile, con gli occhi al cielo che non promette nulla di buono: forse ha sentito anche lui le previsioni meteo… Usciamo da Zubiri sotto un cielo grigio e coperto, luce da brutta giornata e infatti presto siamo costretti alle mantelle per ripararci da una pioggia fitta, non molto forte ma che alla lunga ti fa la doccia come quella a catinelle dei proverbi.
Passo passo, lentamente e con qualche sosta per foto, un caffè o la necessità di un bagno, la mattina scorre e finalmente arriviamo al ponte di Trinidad de Arre e dopo questo inizia una lunga passeggiata fra i borghi che ormai sono la periferia di Pamplona, con una continuità di abitati e strade, marciapiedi e presenze umane. Solo nelle ultime centinaia di metri l’urbanizzazione si dirada per i giardini a ridosso della città.
Pamplona accoglie con le mura della sua rocca, trasformata in giardini pubblici, poi con le strade del suo centro storico. La fantasia corre ai giorni di San Firmino, figurandosi i tori in corsa con uomini in bianco e fazzoletti rossi. Passeranno di qui? O forse da laggiù, chissà?
Tolte le scarpe e preso possesso ognuno del suo letto a castello nell’ostello municipale, non male organizzato ma dalle docce strette, ci adattiamo alla vita del pellegrino, ovvero lavarsi, lavare e poi riposare un po’; passeggiare per esplorare e pensare alla cena. Stasera autogestita, visto che la cucina è disponibile (piccola e al terzo piano dell’ostello) e ci sono negozi vari dove fare un po’ di spesa. Verdura, pasta, formaggio, vino, frutta e quant’altro serve; poi presa di possesso di un tavolo per nove perché abbiamo invitato Margareth, una signora australiana di 72 anni, conosciuta ieri a Zubiri che si è “appoggiata” a noi in alcune cose pratiche durante il viaggio a piedi. E’ priva del braccio sinistro e una mano di aiuto per lei è sempre un dono, anche se in realtà se la cava benissimo ed è al suo secondo Cammino di Santiago. Con il nostro gruppo ha trovato otto amici e questa è una delle cose che rende questo viaggio una cosa a sé stante, checché se ne dica.
Pamplona, un nome che riempie la bocca mentre le sue strade, le piazze e i giardini riempiono gli occhi. Angoli di una città che viene da lontano e che tanto dà a chi la attraversa anche solo per poche ore.
E’ quasi buio e piove ancora il mattino dopo, 27 Aprile, quando lasciamo l’ostello, vestiti da pioggia. La colazione la troviamo a due passi dal portone: un giovane italiano ha un piccolo bar ben fornito, con caffè e cappuccini come piacciono a noi (ma anche agli altri del mondo, quando li possono assaggiare). Il giovanotto, alla domanda del perché si trovi a fare il barista a Pamplona risponde con un semplice “per amore” che di semplice ha tutta la complicazione della vita, vero?
La città ha viali e giardini anche andando verso la parte nuova, angoli che ci sorprendono con i palazzi alternati al verde; il silenzio del mattino presto ce li fa apprezzare di più..
La pioggia cessa ma il cielo non promette nulla di buono, anche se qua e là ogni tanto filtra un po’ di sole. La nostra strada campestre sale lentamente verso delle colline che vediamo avvicinarsi e g

uardando indietro vediamo una buona parte della città che abbiamo lasciato.
L’asperità da superare oggi è l’Alto del Perdon, non particolarmente duro perché l’ascesa è diluita ma la pioggia ha reso il sentiero argilloso una sorta di trappola, che ad ogni passo tenta di incollarti a terra e ti lascia una bella soletta di fango sotto la scarpa. Risultato: passi incerti perché si tende a scivolare e pesantezza aggiunta. Le eoliche sono sempre più vicine e se lassù “è dove il cammino del vento incontra quello delle stelle” vuol dire che siamo prossimi all’Alto del Perdon e le sue sagome di ferro arrugginito.
Sarebbe un bel posto se fosse una bella giornata. In realtà, giusto il tempo di fare due foto, il meteo diventa ancora più inclemente: mi si gelano le mani in pochi secondi e ricomincia a piovere… sono sicuro di aver visto delle palline bianche cadere… e credetemi, non era polistirolo.
Calzati i guanti di pile, portati sempre nello zaino, la situazione migliora ma conviene scendere di qualche metro lungo il sentiero per essere salvi dal vento gelido e sentirsi subito meglio.
Peccato: quel posto tante volte celebrato in foto e perfino nel film con Martin Sheen, mi sarebbe piaciuto godermelo di più… Cacciati via dal maltempo. Roba da pazzi.
Mentre scendiamo dall’altro lato, il meteo decide di dare tregua e man mano che andiamo verso le zone di Uterga, Maruzabal e Obanos il sole si mostra e il cielo diventa da cartolina, ovvero azzurro e screziato da nubi bianche che sembrano di cotone… o di panna montata per i più ghiotti.
Anche se non è proprio caldo, diciamo che la temperatura migliora ed è piacevole camminare su un sentiero di terra battuta fra rade piante e campi gialli di colza. Dura così fino a Obanos, dove l’ostello dei Padres Reparadores ci accoglie e ci sistemiamo per poi pensare alla cena, anche stavolta autogestita. Sarà una vera impresa perché la cucina è un buco ed è già occupata da un giovane albanese che prepara la cena (spaghetti al pomodoro) per 22 persone! Scopriamo che lo fa praticamente di mestiere, cioè va negli ostelli dove c’è la cucina a disposizione e chiede ai pellegrini in quanti ci stanno per la cena, poi fa una spesa relativa con pasta e condimento e “rivende” i piatti di pasta pronta che prepara. Aveva chiesto anche a noi se eravamo della partita ma avevamo risposto di essere autonomi. Come si sposti da un ostello all’altro non siamo riusciti a capirlo: forse in bici, oppure con i mezzi pubblici; fatto sta che non cammina con i pellegrini e quando arriviamo è già all’opera con la sua attività. Però dopo Estella, tappa seguente, non lo vedremo più. Forse ricomincia il giro da capo, oppure avrà cambiato tappe rispetto alle nostre.
Il 28 Aprile ripartiamo da Puente la Reina e salutiamo il bel ponte, che il freddo bestia di ieri non ci ha fatto godere a sufficienza.
Ultime foto assieme all’ingegnere giapponese e poi via lungo una sterrata che sarà la nostra strada per un po’, compresa una salita vigliacca e a tradimento, che di mattinata avremmo anche evitato con tutto il cuore. Ci porta a ridosso di una asfaltata che costeggiamo e fra qualche saliscendi arriviamo in vista di un paese, Mañeru, dove si racconta la leggenda delle due vecchie bevitrici che, con una sfida a suon di bicchieri, stabilirono i confini con il paese successivo, Cirauqui. Ovvero decise quella che rimase in piedi alla fine della tenzone alcolica. Mi sa che di confini definiti da ubriachi ce ne sono tanti in giro per il mondo… sempre meglio di quelli stabiliti a fucilate, comunque. Le sbronze il giorno dopo sono ricordi confusi, le guerre ricordi terribili.
Procediamo lungo un sentiero fra vigneti bassi, campi di erba, alberi fioriti e in distanza un altro paese. Passati oltre, si trovano i selciati antichi di una strada romana, tecnicamente una “glareata” visto che i sassi sono di fiume e diversi gli uni dagli altri, quindi non un lastricato ordinato ma una selciatura molto antica, adattando le pietre diverse fra loro; una tecnica che i Romani avevano appreso dagli Etruschi, come molte altre cose.
Cammina, cammina, arriviamo a Lorca, dove due bar, uno davanti all’altro, ci offrono riposo e panini gustosi; perché non fare una sosta, quindi? Il barista è simpatico e allegro, con noi parla un misto di spagnolo e italiano e noi con lui facciamo lo stesso. Ci intendiamo a meraviglia!
Ripartiamo per raggiungere Villatuerta e dopo ancora un po’ di cammino raggiungeremo Estella.
Sono curioso di attraversare Villatuerta perché da lì veniva un cavaliere che nel mio romanzo “L’Anello del Tempo” fa da comparsa in un capitolo. Naturalmente non mi aspetto nulla di particolare e ciò che vedo è solo un paese pulito, come tutti quelli incontrati (veramente c’è tanta pulizia nei luoghi attraversati!) con giardinetti e un ponte su un piccolo ruscello. Chiesa e qualche casa più antica, nulla di più.
Camminiamo ancora e infine siamo a ridosso della meta di tappa. Un detto locale spiega che “a Estella hai tutto”. Si, bella cittadina devo dire, ma essendo domenica è praticamente tutto chiuso. A fine cena, da un tavolo accanto al nostro arrivano i due amici spagnoli che abbiamo già intravisto fin da Roncesvalles. Sono pensionati ma ancora giovani e prestanti, entrambi si chiamano Manuel e diverranno così per noi “Manuel y Manuel” e hanno con loro un po’ del classico liquore gallego “herbas”, una acquavite giallina e dolce che già Emilio e io avevamo gustato a Santiago nel 2008. I due amici sono appunto gallegos e sono rispettivamente al terzo e al quinto Cammino. Ci spiegano che hanno lavorato assieme per 31 anni e dopo hanno continuato a frequentarsi. Sono bravi e con noi italiani stringono in breve un ottimo rapporto, offrendoci il liquore e fermandosi a parlare con Donato e me, che parliamo spagnolo, anche se in genere capiscono le parole italiane degli altri. Dopo questa sera saranno una presenza costante e amichevole nelle nostre giornate, soprattutto nei pomeriggi e nelle serate di riposo dopo tappa.
29 Aprile. Lasciamo Estella in questo lunedì mattina deserto, in cerca di un posto dove fare colazione. Un bar aperto sotto le pensiline di una grande stazione di servizio non ha attirato alcuni del gruppo, partiti qualche minuto prima e proseguiamo, dopo aver sbirciato dentro, ma degli amici nessuna traccia.

A stomaco vuoto raggiungiamo così la celeberrima “fonte del vino” che, visto l’orario, non eroga il vino ma solo acqua dal rubinetto accanto. A stomaco vuoto un bicchiere di rosso della Rioja, un vino solitamente corposo e alcolico, forse sarebbe stata una colazione un po’ troppo spinta e gli effetti avrebbero accentuato l’andamento altalenante del sentiero.
C’è un bivio e alcuni pellegrini discutono su quale delle due scelte sia migliore: una dovrebbe essere appena più lunga e in bosco, l’altra simile ma attraverso un paio di borghi. Visto che la colazione sarebbe gradita andiamo per la seconda, ma i due bar incontrati sono rigorosamente chiusi…
E vai e vai, attraversiamo una zona boscosa che mi ricorda la Maremma toscana, poi si arriva in uno di quei luoghi che sono l’emblema dei sentieri sul Cammino di Santiago. Una traccia che va qua e là, con alberi e erba, colline in distanza. Sono quelle immagini che da sempre identifico con questo tipo di esperienza, dove non sono cime erbose o rocciose dei monti a fare da sfondo, contorno e caratteristica allo stesso tempo. Paesaggi diversi che esigono diversa fatica ma restituiscono tutti soddisfazioni, gratificazioni per gli occhi e la mente dietro di essa.
Anche il cuore batte e ti fa sentire vivo…
Ecco cosa intendo per immagini classiche del cammino: il senso dello spazio da percorrere, in solitudine o in compagnia cambia poco. Il sentimento di essere slegati dal resto e liberi per momenti tutti nostri, attimi da ricordare e legati a queste visioni. Viaggi con te stesso e per te; sei tu che porti il tuo mondo e il tuo viverlo; scegli se fermarti per una foto o una riflessione, se scorrere a destra o a sinistra del sentiero, di calpestare un sassolino o scansare una pozzanghera… gli occhi in cerca di ogni particolare o una luce diversa. La mente a fantasticare o, silenziosa e priva di pensieri, a rincorrersi nel tempo quasi inesistente tanto è lento; regolato solo dal battito del cuore e dal movimento del sole.
Un saluto spontaneo all’amico, attore  e pellegrino, Giovanni Balzaretti che mi parlava di questi ritmi naturali!
Sempre con il cielo di quel grigio stanco che ormai ci accompagna (camminasse lui capirei…) raggiungiamo Los Arcos e ci infiliamo nella stretta Calle Mayor, una costante dei borghi attraversati, dove ce n’è sempre una, oppure talvolta è la piazza ad averne la denominazione. Qui in realtà non è molto “Mayor” ma, ad onor del vero, le altre sono stradine e quindi per esclusione…
( parte II) continua…
testo e foto di Marco Parlanti